© Associazione Cura e Cultura
INVENTIO II
Quanto
è
faticoso
il
cammino.
Quante
volte,
per
lungo
silenzio,
la
tua
voce
mi
è
parsa
fioca
.
Ma
il
silenzio
è
mio,
non
tuo,
io
il sordo.
A
proposito
del
Vas
d’elezione
:
mi
colpisce
molto
il
modo
in
cui
Paolo
parla
del
suo
viaggio
nell’
immortale
secolo.
L’hai
sicuramente
notato
anche
tu,
al
capitolo
12
della
Lettera
II
ai
Corinzi.
Non
puoi
non
averlo
notato:
ma,
forse
per
l’urgenza
del
tuo
dialogo
salvifico
con
Virgilio,
mentre
rovinavi
in
basso
loco
non
ti
importava
molto
del
modo
in
cui
Paolo
parlava
del
suo
viaggio
nell’
immortale
secolo,
ti
bastava
soltanto
ricordare
che
lui
l’aveva
fatto.
In
ogni
caso,
ti
ripropongo
l’inizio
del
capitolo 12 della
Lettera
, perché forse ora non lo ricordi:
1
Se
bisogna
vantarsi
-
ma
non
conviene
-
verrò
tuttavia
alle
visioni
e
alle
rivelazioni
del
Signore.
2
So
che
un
uomo,
in
Cristo,
quattordici
anni
fa
-
se
con
il
corpo
o
fuori
del
corpo
non
lo
so,
lo
sa
Dio
-
fu
rapito
fino
al
terzo
cielo.
3
E
so
che
quest'uomo
-
se
con
il
corpo
o
senza
corpo
non
lo
so,
lo
sa
Dio
–
4
fu
rapito
in
paradiso
e
udì
parole
indicibili
che
non
è
lecito
ad
alcuno
pronunciare.
5
Di
lui
io
mi
vanterò!
Di
me
stesso
invece
non
mi
vanterò,
fuorché
delle
mie
debolezze.
6
Certo,
se
volessi
vantarmi,
non
sarei
insensato:
direi
solo
la
verità.
Ma
evito
di
farlo,
perché
nessuno
mi
giudichi
più
di
quello
che
vede
o
sente
da
me
7
e
per
la straordinaria grandezza delle rivelazioni.
Per
questo,
affinché
io
non
monti
in
superbia,
è
stata
data
alla
mia
carne
una
spina,
un
inviato
di
Satana
per
percuotermi,
perché
io
non
monti
in
superbia.
8
A
causa
di
questo
per
tre
volte
ho
pregato
il
Signore
che
l'allontanasse
da
me.
9
Ed
egli
mi
ha
detto:
«Ti
basta
la
mia
grazia;
la
forza
infatti
si
manifesta
pienamente
nella
debolezza».
Mi
vanterò
quindi
ben
volentieri
delle
mie
debolezze,
perché
dimori
in
me
la
potenza
di
Cristo.
10
Perciò
mi
compiaccio
nelle
mie
debolezze,
negli
oltraggi,
nelle
difficoltà,
nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte
.
Sembra
dunque
che
per
Paolo
sia
assai
difficile
parlare
di
quell’esperienza
di
indicibile
intensità,
essere
rapito
fino
al
terzo
cielo
…
in
paradiso
,
mai
condivisa
fino
a
quel
momento
con
alcuno,
avvenuta
quattordici
anni
fa
.
Esperienza
così
incredibile,
forse
in
pari
tempo
dolce
e
tremenda
ben
oltre
i
confini
dell’umano,
così
ingestibile
per
il
limitato
intelletto
umano
che
Paolo
a
tutta
prima
non
riesce
neppure
a
intestarsela,
a
riferirla
a
sé.
Quando
comincia
a
scrivere
delle
sue
visioni
e
rivelazioni
,
non
sembra
parlare
di
sé,
perché
scrive
di
un
tale,
di
un
uomo
in
Cristo
che
fu
rapito
al
terzo
cielo
…
in
paradiso.
Nell’
immortale
secolo,
appunto.
Tutta
l’esperienza,
al
pari
del
sogno,
oltrepassa
il
limite
della
dicibilità
e
due
volte
ripete,
Paolo,
di
non
sapere
se
avvenuta
con
il
corpo
o
fuori
del
corpo.
Che
potrei,
da
psicologo,
tradurre:
non
so
dire
se
ci
sono
andato
da
sveglio,
con
il
corpo
o
in
sogno,
fuori
del
corpo.
Se
di
qualcosa
non
so
dire
se
l’ho
sognata
o
se
l’ho
vissuta
nella
veglia,
beh,
questa
certa
cosa
non
sta
completamente
né
nell’uno
né
nell’altro
ambito.
O
addirittura,
cosa
ancora
più
difficilmente concepibile, sta completamente sia nell’uno sia nell’altro stato.
Ma Paolo non smette di stupirmi: nella riga successiva, scrive
Di lui io mi vanterò!
Come,
di
lui
io
mi
vanterò!
Paolo
e
lui
sono
due,
ma
Paolo
ne
parla
come
se
fosse
merito
suo
se
quel
lui
ha
avuto
quell’esperienza.
Tutto
ci
sembrerebbe
normale
se
lui
fosse
magari
un
allievo
di
Paolo,
nel
qual
caso
Paolo
si
vanterebbe
del successo di un suo allievo, che sarebbe anche successo suo.
Ora:
tu
hai
letto
la
Lettera
II
in
latino,
nella
traduzione
di
san
Girolamo,
l’unica
allora
per
te
disponibile.
E
non
sapevi
il
greco
(che
non
so
neppure
io).
Girolamo,
traducendo
dal
greco
in
latino,
usa
il
verbo
gloriari
che
significa
gloriarsi,
vantarsi.
È
un
verbo
riflessivo,
indica
un’azione
che
parte
dal
soggetto
e
ritorna
allo
stesso.
E
guarda
caso
Paolo
esordisce
con
le
parole
Se
bisogna
vantarsi
,
per
subito
osservare
ma
non
conviene.
Il
tuttavia
che
segue
è
congiunzione
avversativa,
come
per
dire,
lo
so
che
non
si
fa,
di
vantarsi,
ma
io
lo
faccio
lo
stesso,
e
con
questo
introduce
le
visioni
e
le
rivelazioni
del
Signore.
Al
punto
5
scrive
però
espressamente:
Di
lui
io
mi
vanterò!
Di
me
stesso
invece
non
mi
vanterò
fuorché
delle
mie
debolezze
.
Qui
l’uomo
rapito
in
paradiso
e
Paolo
sono
ben
separati
e
distinti.
È
nel
punto
successivo,
il
6,
che
la
separazione
vien
meno:
Certo,
se
volessi
vantarmi,
non
sarei
insensato,
perché
direi
solo
la
verità;
ma
evito
di
farlo,
perché
nessuno
mi
giudichi
di
più
di
quello
che
vede
o
sente
da
me.
Ma
evito
di
farlo
,
evito
di
vantarmi:
e
qui
i
due,
prima
ben
separati
e
distinti,
sono
diventati
uno
solo.
Forse
questo
evito
di
farlo
esprime
una
qualche
consapevolezza,
in
Paolo,
di
quanto
sia
difficile
non
solo
per
lui
riferire
di
un’esperienza
così
scottante,
ma
anche
e
soprattutto
per
gli
altri
sentirne
parlare,
per
coloro
che
non
l’hanno
neppure
vissuta in prima persona.
La
coscienza
del
valore:
di
questo
stiamo
parlando,
faccenda
indispensabile
quanto
pericolosissima.
Jung
parla
del
pericolo
dell’inflazione
quando
ci
avviciniamo
al
valore,
a
qualcosa
che
vale:
il
rischio
è
il
gonfiarsi
dell’Io,
l’identificarsi
con
il
valore,
diventare,
come
dice
bene
il
linguaggio
comune,
un
pallone
gonfiato.
Paolo
parla
della
stessa
cosa,
quando
sente
il
pericolo
della
superbia.
E
riferisce
che
gli
è
stata
messa
una
spina
nella
carne
,
un
inviato
di
Satana
per
percuotermi,
perché
io non monti in superbia.
Ecco di nuovo, come del caso di
Giobbe
, un Satana collaboratore dell’
avversario d’ogni male.
Infine
Paolo
chiude
proprio
sul
tema
della
propria
debolezza
creaturale,
sulla
forza
autentica
che
può
scaturire
nella
coscienza
della
nostra
debolezza:
solo
riconoscendo
la
nostra
debolezza,
il
limite,
la
creaturalità,
il
confine
di
capacità
e
di
valore, solo riconoscendo e accettando positivamente tutto ciò accediamo al nostro potere reale.
Per
me
l’alto
passo
è
dunque
l’intimo
tabernacolo
della
musica,
nel
quale
spirito
e
materia,
mente
e
corpo
diventano,
o
forse
tornano
a
essere,
finalmente,
la
stessa
cosa.
Operazione
divina,
ti
scrivevo.
Divina!
E
finché
si
tratta
di
parlare
del
divino,
beh
fin
qui
ci
arrivo
ancora,
ma
se
dall’aggettivo
devo
passare
al
sostantivo
…
ecco
qui
sono
davvero
in
difficoltà.
Anche
se,
tuttavia,
avverto
nelle
parole
con
cui
ti
rispondevo
alle
due
terzine
precedenti,
un
sotterraneo
collegamento,
un
canale
occulto
con
queste
tue,
alle
quali
mi
accingo
ora
a
rispondere.
Canale
proprio
occulto,
perché
in
apparenza
la
distanza e la diversità non potrebbero essere più grandi.
In
apparenza
…
E
in
realtà?
Tu
Lo
tiri
in
ballo
chiamandolo
l’avversario
d’ogni
male
(ne
scrivo
con
la
maiuscola,
ti
prego
di
notarlo).
Sì,
so
dove
stai
per
andare
e
so
che
lì
certi
termini
non
si
possono
neanche
nominare,
forse
neanche
pensare.
Rimane
il
fatto
che
quando
parli
così
di
Lui,
la
distanza
fra
me
e
te
mi
sembra
abissale,
ancor
più
di
quella
che
ci
separa
quando
ti
parlo
dell’infinità
di
strumenti
tecnologici
che
hanno
trasformato
la
nostra
vita
quotidiana
rispetto
alla
tua,
in
modi che tu non puoi nemmeno immaginare.
E
poi:
se
Lui
è
l’avversario
d’ogni
male
,
già
ai
tuoi
tempi
non
se
la
vedeva
troppo
bene
nella
sua
lotta
contro
il
male
–
sempre
supposto
che
Lui
lottasse
davvero
contro
il
male.
Certo,
quanto
poi
se
la
sarà
cavata
invece
ai
miei
tempi,
o
in
quelli
del
mio
arrivo
in
questo
Mondo
nel
secolo
scorso,
nemmeno
questo
puoi
immaginare.
Perché,
qualunque
cosa
fosse
la
guerra
ai
tempi
tuoi,
ai
tempi
miei
divenne
infinitamente
più
atroce
e
sterminatrice.
Se
male
significa
l’umano
che
infligge
sofferenza
e
morte
a
sé
stesso,
il
male,
che
già
s’era
preso
non
poche
soddisfazioni
nel
secondo
ventennio
del
secolo
scorso,
aveva
ripreso
a
scorrazzare
indisturbato
da
qualche
anno
in
tutto
il
mondo
quando
fui
concepito
nel
giugno
del
’43.
E
imperversava
senza
alcun
ostacolo
nel
febbraio
del
’44,
quando
ci
venni,
al
mondo,
senza
che
l’avversario
d’ogni
male
potesse molto contro di lui, almeno così sembrava.
Ma
sto
menando
il
can
per
l’aia.
In
realtà
il
fatto
è
questo:
al
solo
avvicinarmi
a
questo
argomento
(a
Lui),
il
mio
sentirmi
piccolo,
insufficiente,
incapace,
inadeguato,
si
fa
insopportabile,
l’acuta
percezione
dei
miei
limiti,
quella
sensazione
di
pochezza
e
di
fragilità
che
mi
hanno
sempre
tormentato
dacché
ho
memoria
si
fanno
più
acute
che
mai,
una
fitta
profonda,
una
scheggia
nella
carne
.
Il
che
d’altronde
è
ovvio:
se
penso
a
un
oltre-me
infinitamente
potente,
massimo
concentrato
di
tutte
le
qualità,
accanto
a
un
tale
pensiero
io
non
posso
che
sparire.
Tu
fra
poco
di
te
stesso
dirai:
me
degno
a
ciò
né
io
né
altri
‘l
crede.
Ebbene,
vivo
tutta
sulla
mia
pelle
questa
indegnità
di
cui
tu
parli
e
un
poco
mi
consola
pensare
che anche tu ti sei sentito poco
degno
.
L’avversario
d’ogni
male
:
insisto
su
questa
tua
espressione.
Perché
se
parli
così
di
Lui
tocchi
per
me
un
nervo
scoperto.
Che
è
il
problema
del
male.
Forse
è
il
problema
centrale
della
vita.
Male
che
ci
circonda
da
tutte
le
parti,
che
ci
colpisce
in
ogni
momento,
sembra
quasi
essere
la
normalità
della
vita
fatta
eccezione
per
alcuni
momenti
a
partire
dai
quali
sviluppiamo
l’irragionevole
fantasia
del
bene.
È
un
problema
così
grosso,
così
pervasivo,
quello
del
male,
che
anche
solo
a
parlarne
se
ne
rimane
contagiati,
tu
ne
sai
qualcosa.
Me
ne
accorgo
io
stesso,
ora,
nel
formulare
questi
pensieri
per
te:
la
vicinanza
anche
solo
verbale
al
tema
del
male
è
una
folata
di
vento
rabbioso
che
vuole
a
tutti
i
costi
spegnere
una
fiamma
che
tuttavia,
ostinatamente
e
testardamente,
anche
lei
a
tutti
i
costi
non
ne
vuole
sapere,
di
lasciarsi
spegnere.
E
comunque
mi
fa bene potertene parlare, mi accorgo che già solo questo scriverti placa un poco la fitta di quella
scheggia
.
L’avversario
d’ogni
male:
senti,
prendiamo
Giobbe
.
In
quel
libro
Lui
(sempre
con
la
maiuscola
…)
non
sembra
proprio
l’avversario
d’ogni
male
,
anzi.
Dialoga
senza
problemi
con
quello
che
più
tardi
diventerà
il
principe
del
male,
quello
che
invece,
in
Giobbe,
è
soltanto
uno
dei
suoi
angeli,
sempre
un
po’
gelosi
degli
uomini,
sempre
indispettiti
dal
Suo
interesse
per
loro,
sempre
pronti
ad
accusarli
davanti
a
Lui.
Lo
incarica
di
mettere
alla
prova
Giobbe,
dialoga
tranquillamente
con
lui
lasciando
che
faccia
i
suoi
esperimenti
sul
malcapitato.
Guarda
caso,
nel
tempo
l’epiteto
di
avversario
andrà
proprio
al
Suo
angelo
un
po’
geloso.
Che
sarà
anche
chiamato
διάβολος
diabolus
,
ingannatore,
accusatore,
separatore
.
In
questa
sua
ultima
funzione,
di
separatore,
il
diabolus
è
proprio
ciò
che
divide,
che
separa
e
allontana
ciò
che
è
vicino,
che
in
altre
parole
rende
molteplice
ciò
che
è
uno.
Ma
questo
dividere
e
separare
altro
non
è
che
distinguere,
cogliere
le
differenze
e
quindi
individuare.
Insomma
sto
parlando
della
nostra
capacità
di
differenziare,
fondamento
di
quella
che
chiamiamo
coscienza, fondamento a sua volta dell’individuazione, ossia del processo in virtù del quale diveniamo quello che siamo.
Ma
nonostante
tutti
questi
dubbi,
queste
perplessità,
o
forse
proprio
perché
ci
passo
attraverso,
a
dubbi
e
perplessità,
mi
si
chiarisce
un
poco
quel
canale
oscuro,
quel
legame
fra
quanto
tu
riferisci
del
tuo
colloquio
con
Virgilio
e
la
mia
esperienza
del
tabernacolo
della
musica,
laddove,
come
ti
dicevo,
corpo
e
spirito
ritornano
a
essere
una
cosa
sola.
Per
scolpire
e
modellare
il
tempo
devo
scolpire
e
modellare
la
mia
stessa
fisicità,
in
primis
naturalmente
quella
delle
mani
e
naturalmente
di
buona
parte
del
resto
del
corpo,
perché
solo
se
le
braccia
e
le
spalle
e
il
torace
tutto
diventano
morbidi
e
rilassati
e
in
pace
con
sé
stessi
–
il
che
non
è
affatto
facile
e
scontato
–
solo
se
riesco
a
sciogliere
le
infinite
tensioni
muscolari
ereditate
da
anni
di
scarsa
coscienza
corporea,
solo
allora
i
polsi
e
le
mani
(e
il
corpo
tutto),
divenuti
molli,
docili
e
fidenti
permettono
agli
affetti
di
far
vibrare
nell’aria
i
più
diversi
accenti
con
i
quali
l’anima
stessa
si
annuncia
attraverso
l’immagine
musicale.
E
questo
lavoro
corporeo-immaginativo
influisce
sul
tempo,
ne
modifica
lo
scorrere
e
più
io
entro
nel
suo
intimo,
nell’intimo
del
tempo,
che
vuol
dire
nell’intimo
della
musica,
più
esso
cambia
scala
e
a
me
pare
addirittura
di
annullarlo,
di
approdare
appunto
all’
immortale
secolo,
all’eternità,
che
non
è
ovviamente
un
tempo
infinitamente
esteso,
ma
piuttosto
un’assenza
di
tempo.
E
nel
mio
piccolo,
piccolissimo,
ho
un
qualche
barlume
dell’esperienza
che
per
i
grandi
è
cosa
comune.
Mozart
scrive
in
una
lettera
Tutto
è
già
composto,
ma
non
è
ancora
scritto.
I
suoi
manoscritti
confermano,
nitidi
e
privi
di
correzioni
come
sono,
come
non
avesse
alcun
dubbio
su
quanto
scriveva,
perché
la
composizione
era
già
tutta
pronta
nella
sua
mente,
era
pronta,
lui
la
vedeva
con
un
solo
sguardo,
occorreva
solo
appunto
scriverla,
una
nota
dopo
l’altra.
Questa
sua
capacità
di
vedere
mentalmente
tutta
la
composizione,
nella
sua
totalità,
di
vedere
in
un
solo
istante
sovrapposti
gli
eventi
di
tanti
e
tanti
istanti
diversi,
mi
ricorda
sempre
il
guardare
il
cielo
stellato,
quando
davanti
a
noi
nello
stesso
istante
si
squadernano
miriadi
di
istanti
diversi,
lo
spazio
veramente
diventa
tempo,
ogni
puntolino
luminoso
con
la
sua
data
di
secoli
addietro.
Ebbene,
nel
mio
piccolo,
insisto
a
dire
nel
mio
piccolissimo,
nello
studiare
un’opera
mi
capita
di
accorgermi
che
aumenta
anche
per
me,
almeno
un
poco,
la
mia
capacità
di
contemplarne
momenti
diversi
in
un
istante
solo.
Oso
a
malapena
avvicinare
la
mia
esperienza
di
disabile
della
musica
a
quella
mostruosa
di
Mozart,
di
abilità
divina
invece.
Ma
qui
arriva
il
punto:
mi
sembra
che
qualitativamente
queste
tre
cose,
la
mia
minuscola
esperienza
di
disabile
musicale,
la
meraviglia
della
mente
di
Mozart
e
infine
quanto
tu
scrivi,
che
l’
avversario
d’ogni
male
fu
gentile
con
Enea,
“
pensando
l’alto
effetto
ch’uscir
dovea
di
lui
”,
queste
tre
cose
appunto
appartengano
allo
stesso
tipo
di
esperienza.
Fatte,
come
dire,
le
debite
differenze
fra
il
mio
balbettare
musicale,
l’angelica
gioia
del
pensiero
mozartiano
e
il
pensare
dell’
avversario
d’ogni
male
.
Insomma,
se
è
vero
che
siamo
fatti
a
Sua
immagine
e
somiglianza,
allora
un
piccolo
senso può avercelo quanto ti sto farfugliando.
Pensando l’alto effetto che uscir dovea di lui: chiarito che con lui, Lui si riferisce a Enea, qual era il pensiero particolare di Lui?
Ma niente meno che la storia di Roma, prima imperiale e poi papale, uno dei capitoli dell’universo intero, universo tutto
presente nella mente di Lui, così come il quarto movimento della sinfonia Jupiter k 551 era tutto presente nella mente di
Mozart e questi doveva sobbarcarsi solo la fatica fisica di scriverlo tutto con le mani, poi così doloranti alla fine della
giornata. L’universo come una strepitosa immensa sinfonia strumentata da Dio. Dio come un super Mahler all’ennesima
potenza: ed essendo nato nella sua mente, di Lui, tale pensiero, dato l’alto effetto che uscir dovea di lui diventava ovvio e
necessario che Enea fosse dotato di qualche superpotere, come quello di andare – soprattutto tornarvi – là dove l’umano
può andare solo a costo di perdere la possibilità di tornare indietro. E se doveva orchestrare una simile storia, poteva ben
concedere che Enea facesse quel viaggio, altrimenti a lui proibito in quanto umano. Dato l’effetto, si può ben capire:
almeno per chi capisce, per chi ha il dono dell’intelletto.
Perché,
per
dire
di
quel
vivente
Enea
che
andò
là,
con
il
corpo,
là
dove
il
tempo
non
esiste,
perché
lo
nomini
attraverso
suo
figlio?
Come
se
figlio
di
per
sé
avesse
attinenza
con
regno
dei
morti
…
non
so
…
io
conosco
però
assai
bene
questa
attinenza
fra
figlio
e
regno
dei
morti
:
un
figlio
mi
precedette
laggiù,
un
figlio
laggiù
mi
attende,
nell’oltre
tomba,
nell’Averno,
nell’al
di
là,
nel
regno
dei
morti,
nell’Orco.
Quanto
mi
spaventava
da
bimbo
l’Orco!
Non
sapevo,
ma
evidentemente
sentivo
con
ogni
fibra
del
mio
essere,
con
l’incosciente
intensità
del
bimbo,
che
l’Orco
era
nell’antichità
la
personificazione
della
morte,
era
il
re
del
regno
degli
Inferi,
essere
mostruoso
che
divorava
gli
uomini.
Quando
mi
sfiorò,
quando
si
prese
chi
amavo,
mi
donò
senza
che
io
lo
chiedessi
il
suo
enorme
potere
conoscitivo,
pretendendo
da
me
un
prezzo
tremendo,
uno
strazio
senza
nome.
Fece
tutto
lui,
io
non
potevo
che
assistere,
quasi
incredulo,
a
ciò
che
incredibilmente
scorreva
davanti
a
me,
la
morte
di
mio
figlio:
nei
giorni
successivi
il
reale,
il
ciò
che
è
,
mi
si
svelò
con
una
lucentezza
e
un
nitore
che
mai,
ti
giuro,
mai
avevo
conosciuto
prima.
Mi
parve
di
essermi
del
tutto
svegliato
solo
in
quei
momenti,
mentre
la
vita
precedente
d’improvviso mi apparve come passata in sogno.
Ora,
tutte
le
mattine,
appena
mi
è
possibile
siedo
al
pianoforte
e
studio,
lambisco
la
musica:
io
so,
sento
che
il
mio
far
musica
ogni
mattina
è
un
andare
sensibilmente
ad
immortale
secolo
,
è
un
viaggio
nel
regno
dei
morti,
un
prepararmi
al
morire
che
è
al
tempo
stesso
un
vivere
con
massima
pienezza.
Me
ne
accorgo
perché
cambia
la
mia
percezione
del
tempo.
Curioso
paradosso:
lavoro
e
lo
scolpisco,
il
tempo,
perché
far
musica
significa
disegnare
il
tempo,
e
così
facendo
in
qualche
misterioso
modo
mi
sembra
di
annullarlo,
mi
avvicino
all’
immortale
secolo
,
che
significa
eternità,
cioè
assenza
di
tempo,
cioè
altrove
rispetto
al
regno
della
vita
che
di
tempo
è
intessuta:
altrove
è
il
regno
degli
inferi.
Tutta
la
mia
persona,
per
quanto
essa
possa,
non
del
tutto
a
buon
diritto,
essere
considerata
mia,
con
tutto
il
suo
essere
immaginativo-corporeo
(
corruttibile
,
e
poi
sensibilmente
)
è
protesa
nel
risvegliare
a
vita
quei
segni,
morti
e
insufficienti
se
lasciati
soli
sulla
carta,
unica
chiave
per
riportare
al
Mondo
quelle
meraviglie
che
scelsero
il
Gran
Sordo
tanti
anni
fa
per
farsi
da
lui
partorire.
Fecero
capolino
nella
sua
mente,
gli
si
presentarono
come
brevi
annunciazioni
e
lui
le
inseguì,
le
braccò
ostinatamente
e
testardamente
per
tutta
la
vita.
Quel
Gran
Sordo
sentì
quello
che
io
chiamo,
pensando
a
lui,
il
dovere
della
gioia
:
me
ne
parlò
quando
ero
poco
più
che
bimbo
e
incosciente
con
la
Leonora
n.
3
e
continuò
per
tutta
la
vita
a
ricordarmi
a
me
stesso
e
continua
ancora
a
farlo,
ora
che
sono
vecchio
e
timoroso.
Ho
detto
risvegliare
a
vita
quei
segni
:
perché
il
mio
piccolo
far
musica
è
operazione
divina,
è
fiato-soffio
che
trasforma
l’inerte
segno
in
canto
di
vita,
in
vita
che
canta,
e
come
tale
non
può
essere
estraneo
alla
morte,
indistinguibile
gemella
della
vita.
Nel
bene
come
nel
male
poi,
come
canterò
io
quella
musica
non
l’ha
mai
fatto
nessuno
–
non
è
sciocca
vanagloria
la
mia,
per
tutta
la
vita
mi
sono
sentito
e
ancora
mi
sento
piccolo,
inerme,
insufficiente
–
perché
comunque,
qualunque
sia
il
valore
cui
approda
la
mia
fatica,
quel
contatto,
quel
lambirci
fra
me
e
il
Gran
Sordo,
così
come
quel
lambirci
fra
me
e
te,
è
per
me
un
addentrarmi
nel
regno
dei
morti,
dove
voi
vivete
la
vostra
più
vera
vita
attraverso
le
nostre
vite
che
ci
aiutate
a
vivere
…
ebbene,
quel
lambirci,
quell’abbracciare
voi,
ombre
inconsistenti
ma
più
vive
che
mai,
che
risveglia
la
vita
in
quel
tremulo
stato
stazionario
che
io
sono, è un
unicum
.
Spesso
in
questi
giorni
lavoro
sul
primo
movimento
della
sua
Sonata
per
pianoforte
in
do
minore,
la
sua
quinta,
la
prima
delle
tre
dell’
opus
10.
Aveva
27
anni
quando
la
scrisse,
ben
prima
di
sapere
della
sua
sordità.
Dicendo
quinta
Sonata
in
do
minore
non
posso
non
pensare
anche
alla
sua
quinta
Sinfonia
in
do
minore
,
di
una
decina
d’anni
più
tarda.
Non
solo
il
numero,
e
la
tonalità,
apparentano
queste
due
epifanie
che
pretesero
le
sue
forze:
soprattutto
lo
fanno
la
sintesi
lapidaria,
il
suono
che
si
fa
pietra,
tutto
è
essenziale,
pochi
suoni
e
costruzione
di
implacabile
necessità,
così
è
perché
così
deve
essere
,
nulla di sprecato, nulla di inutile. Solo in te trovo una simile capacità di racchiudere tanta vita palpitante nella parola.
Il
Gran
Sordo
va
al
dunque
subito
in
quella
Sonata
,
senza
preamboli,
con
un
brusco
e
compatto
accordo
in
do
minore,
che
però
non
riesco
a
sentire
in
modo
percussivo,
ma
piuttosto
come
una
brusca
folata
di
vento,
come
un
forte
soffio
improvviso
che
subito
si
scioglie
nei
suoi
suoni
costitutivi
lanciandoli
verso
l’alto
e
sventagliandoli
in
un’affermazione
inconfutabile,
con
l’indicazione
agogica
Allegro
molto
e
con
brio
,
su
un
tre
quarti
che
scorre
sommesso
e
fulmineo
…
insomma,
per
quanto
tempo
non
ne
sono
venuto
a
capo!
È
la
prima
volta
di
un
certo
suo
gesto
assertivo,
un
dire
sì
senza
dubbi
né
esitazioni,
un
ineluttabile
lanciarsi
nel
fluire
della
vita,
un
sì
che
comparirà
per
l’ultima
volta
nel
quarto
movimento
del
Quartetto
n.
16
opus
135,
completato
nell’ottobre
del
1826,
pochi
mesi
prima
di
morire.
Sulla
partitura,
sopra
l’incipit
del
quarto
movimento
di
quel
Quartetto,
il
Gran
Sordo
appose
la
scritta
Der
schwer
gefasste
Entschluss
(La
difficile
questione)
e
proprio
sopra
le
prime
battute
un’interrogazione
seguita
dalla
risposta
affermativa
ripetuta:
Muss
es
sein?
Es muss sein! Es muss sein! (Deve essere? Deve essere! Deve essere!).
Torno
alla
quinta
Sonata
.
Solo
dopo
aver
incontrato
l’interpretazione
di
Glenn
Gould,
uno
dei
pochi
che
rende
davvero
onore
ai
tempi
indicati
dal
Gran
Sordo,
soprattutto
agli
allegro
con
brio,
solo
allora
qualcosa
dentro
di
me
si
mosse
a
quel
primo
movimento:
la
frenesia
del
tempo,
lo
scorrere
travolgente
di
quella
musica
mi
parve
un
sussurro,
una
sorta
di
angelica
trepidazione
che
può
emergere
soltanto
con
un
tempo
fulmineo.
Quei
balzi
verso
l’alto
non
sono
arpioni
della
volontà,
secondo
una
brutta
e
diffusa
lettura
titanica
del
Gran
Sordo:
nessuna
brutalità,
nessuna
frustata.
Piuttosto,
un’apparizione
celeste,
un
fenomeno
meteorico,
un
lampo,
un
frullar
di
ali.
Qualunque
cosa
significhi
spirito,
immortale
secolo,
qui
si
annuncia
trapassandoci
nel
mondo
del
qui
e
ora
e
inferendoci
una
ferita
da
cui
trabocca
tenerezza:
la
risposta
al
gesto
celeste
è
quasi
un
umano,
un
umanissimo
singhiozzo
(quarta
battuta).
Dopo
il
volo
sulla
tastiera
di
quell’arpeggio
le
mani
si
avvicinano
e
si
raccolgono
in
una
contrattura
quasi
dolorosa,
una
piccola
implorazione
di
fronte
a
tanto
potere
che
ci
sdegna
quasi
indifferente
alle
nostre
vite.
Una
sorta
di
apparizione
trepidante
e
fremente,
che
è
già
scomparsa
non
appena
tocca
i
bordi
della
coscienza.
Gli
angeli
devono
essere
qualcosa
del
genere,
accadimenti
ai
bordi
della
coscienza.
Infine:
prima
dello
sviluppo,
alla
fine
della
prima
esposizione,
battute
da
87
a
90,
quei
tre
mi
bemolle
e
finalmente
il
sol
successivo,
tanto
chiamato
e
tanto
atteso,
sono
certo
un
Es
muss
sein
,
ma
un
istante
dopo,
da
battuta
95
alla
fine
dell’esposizione
siamo
al
rovescio
della
medaglia.
Lo
spirito
prima
si
afferma
perentorio,
quasi
si
impone,
ma
questa
è
solo
una
faccia:
l’altra
è
preghiera,
di
più,
è
implorazione
a
essere
ascoltati.
Mi
senti,
davvero,
mi
senti
proprio?
La
preghiera
di
un
innamorato
che
chiede
disperatamente
al
cuore
della
sua
bella
di
essere
accolto.
O
anche
la
preghiera
del
mendicante,
che
nulla
ha,
che
non
ha
valore
e
implora
che
almeno
un
po’
di
valore
gli
venga
attribuito
col
porgli
accanto
una
moneta.
Mi
sembra
che
queste
ultime
battute
della
esposizione
siano
il
piano
di
lavoro
dei
successivi
trenta
anni,
ultimato il quale con il
Quartetto
n. 16 il Gran Sordo poté permettersi di morire.
Tu
dici
corruttibile
ancora
per
dire
corpo,
corpo
vivo,
corpo
senziente.
È
grazie
a
quel
corpo,
corruttibile,
mutevole,
caduco,
solo
grazie
a
lui
riesco
talvolta
a
dar
vita
(quasi!)
a
quel
frullar
d’ali
e
a
rispondergli
con
un
umanissimo
singhiozzo.
Quel
corpo
così
fragile,
in
fin
dei
conti
soggetto
a
una
combustione
implacabile
…
non
c’è
poi
tanta
differenza
fra
le
mie
rughe
e
l’incartocciarsi della foglia riarsa
. Corpo, con tutta la sua fragilità, vuol dire sentire, vuol dire
sensibilmente.
Con
il
tempo,
solo
con
il
tempo
–
e
con
quanto
tempo!
–
ho
imparato
a
rispettarlo,
il
corpo,
solo
ora
che
comincia
a
incartocciarsi
un
poco
riesco
a
dedicargli
la
dovuta
attenzione,
tenera
attenzione,
dopo
averlo
trascurato
e
ignorato
per
tutta
la
vita.
Eppure
è
generoso,
il
corpo,
e
mi
perdona
la
trascuratezza
di
anni,
e
tutto
sommato
sa
rispondere
ancora
gentilmente
alla
mia
gentilezza
e
devozione.
Solo,
e
qui
mostra
la
sua
fragilità
e
la
prossimità
del
suo
incartocciarsi
,
i
dolori
inferti
dal
Mondo
lo
fiaccano
assai
più
di
un
tempo,
lo
invecchiano,
anche
se
poi
basta
un
barlume
di
speranza
per
farlo
rifiorire.
Ma
giunto
alla
mia
età,
il
dolore,
il
dolore
psichico,
mi
capisci,
all’istante
diventa
un
peso
che
schiaccia
il
centro
del
petto
e
rende
poi
così
difficile
il
canto
…
Ma
pure,
se
i
dolori
inferti
dal
Mondo
hanno
questo
potere,
è
solo
perché
io
lo
concedo
loro,
solo
perché
io
con
la
mia
pochezza,
con
la
mia
titubanza
glielo
permetto
…
solo
perché
non
ho
la
forza
di
impedire
che
il
male
del
Mondo
risvegli
il
male
dentro
di
me.
Già
ti
ho
parlato
di
quella
giovane
donna
che
morì
ad
Auschwitz
il
30
novembre
1943,
Etty
Hillesum.
Mi
fa
piacere
riscrivere
le
sue
parole,
anche
se
te
le
ho
già
scritte
una
volta,
mi
fa
bene
ripeterle:
…
per
umiliare
qualcuno
si
deve
essere
in
due:
colui
che
umilia,
e
colui
che
è
umiliato
e
soprattutto:
che
si
lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell'aria …
Il
mio
viaggio
mattutino
nel
regno
dei
morti,
il
mio
lambir
la
musica,
avviene
dunque
con
il
corpo
tutto.
Con
attenzione
e
devozione,
ti
ho
detto,
mi
avvicino
alla
creatura,
celata
al
di
là
delle
note
della
partitura,
per
invitarla
a
risuonare
nella
nostra
dolce
aria.
Già
solo
con
il
suo
richiedermi
attenzione
e
devozione,
la
creatura
mi
accoglie
benevola
e
mi
elargisce
i
suoi
doni,
vuole
il
meglio
di
me
per
presentarsi
al
Mondo.
Sciolta
ogni
tensione
in
ogni
parte
del
corpo,
le
mani
morbide
e
lievi,
la
devozione
deve
attraversare
tutte
le
fibre
del
corpo
per
arrivare
fino
alla
punta
delle
dita.
Le
quali
devono
poi
ogni
volta
arrivare
al
fondo
corsa
dei
tasti
ma,
e
qui
sta
il
dunque,
pianissimo,
in
modo
che
l’estrema
leggerezza
sia
coniugata
con
l’affondo
sul
tasto,
sia
peso
sufficiente
per
compierne
tutta
l’escursione.
I
suoni
di
ogni
accordo
devono
essere
tutti
presenti
all’appello,
ma
solo
attraverso
questo
delicatissimo
equilibrio
acconsentono
a
mostrarsi,
quasi
da
soli,
nella
loro
diversa
importanza
e
ruolo.
È
questo
un
esercizio
di
dolcissimo
abbandono
corporeo,
finalmente
corpo
e
psiche
sono
una
cosa
sola
e
l’immagine
cresciuta
dentro
di
me,
quella
che
chiamo
la
creatura,
provvede
a
usare
a
sua
discrezione
e
misura
la
mia
corporeità
per
venire
al
mondo
sviluppando
lentamente
sicurezza
e
in
ogni
istante
consapevolezza
di
ciò
che
sta
per
avvenire,
pronta
ad
accogliere
gioiosamente
ogni
suono
al
suo
presentarsi.
Le
dita
molli,
non
più
mie
ma
sue,
si
muovono
senza
più
alcun
bisogno
della
mia
intenzione
ben
sapendo
ognuna
con
sicurezza
dove
andare.
Questo
è
il
punto
più
importante,
e
anche
il
più
difficile
da
dire:
perché
la
fusione
fra
corporeo
e
mentale,
fra
gesto
e
suono
che
si
fanno
uno
–
e
questa
è
conoscenza
nel
senso
più
profondo,
è
la
conoscenza
–
è
condizione
sine
qua
non
di
questo
abbandono
dell’intenzione.
Perché
questo
leggere
come
se
non
volessi
farlo,
con
le
dite
molli
come
non
fossero
mie,
come
fossero
panni
bagnati
soggetti
solo
alla
gravità,
avviene
solo
se
la
partitura
si
è
trasferita
dentro
di
me,
se
è
diventata
me,
e
questo
leggere
è
un
esplorarla
continuo
e
scoprirla
dentro
di
me
in
tutti
i
suoi
recessi
e
anfratti.
Una
volta
avevo
l’ossessione
di
studiare
a
memoria
(lezione
di
Gould)
e
mi
sforzavo
di
farlo.
Ora
non
voglio
sforzarmi
di
farlo.
È
come
se
dovessi
arrivarci
senza
volerlo.
Certo
noto
che
l’ignoranza,
la
non
conoscenza,
la
non
trasparenza
di
un
passaggio
anche
minimo
sono
una
cosa
sola
con
la
perdita
di
quell’unità
corpo
psiche,
di
quella
“mollezza”
corporea
che
sola
mi
sembra
permettere
alla
musica
di
venire
al
mondo
attraversandomi,
ben
al
di
là
della
mia
stessa
intenzione
e
volontà.
E
grazie
alla
quale
la
velocità
diventa
una
questione
non
di
metronomo,
ma
di
giusto
tempo
,
di
tempo
giusto
perché
significativo
,
perché
ogni
frammento e ogni nota e ogni pausa hanno ricevuto necessità e senso. Questo è
l’alto passo
cui
tu mi fidi.
Hai
invocato
la
bellezza,
il
tuo
mestiere,
la
tua
mente
stessa
che
non
erra
e
della
quale
si
parrà
la
…
nobilitate.
Ma
ancora
non
ti
basta.
Perché
tu
ora
dubiti
della
tua
stessa
virtù
.
Ti
capisco
se
chiedi
conforto
e
rassicurazione
al
poeta:
la
poesia,
la
bellezza
scandagliano
le
nostre
profondità,
sempre
che
noi
glielo
permettiamo,
e
fanno
brillare
quei
pochi
frammenti
di
bellezza
che
a
nostra
insaputa
vivono
annidati
nella
nostra
anima.
Tu
chiedi
aiuto
alla
poesia
e
lo
stesso
faccio
io
con
te.
Anch’io
so
quanto
è
difficile
mantenere
salda
la
fiducia,
quando
di
fronte
alla
bestia
che
fa
tremar
le
vene
e
i
polsi
mi
sento
rovinare
anch’io
in
basso
loco,
dove
il
sol
tace
.
Per
questo
faccio
mie
le
tue
parole
e
ora
le
rivolgo
a
te:
aiutami,
tu
che
mi
guidi.
Perché
davvero
tu
mi
guidi,
alla
lettera:
io
passo
passo
procedo
nel
mio
risponderti,
con
fatica,
preziosa
sì
ma
pur
sempre
fatica,
affidandomi
alla
tua
guida
verso
per
verso,
anzi
proprio
parola
per
parola.
Rifletto
su
ogni
tua
parola
e,
quando
le
piccole
cose
della
vita
quotidiana
con
le
loro
asprezze
mi
costringono
a
separarmene,
lascio
che
essa
si
immerga
nel
bagno
immaginativo
dell’oblio
per
poi
riemergerne,
con
i
suoi
tempi
certo,
portando
con
sé
qualcosa
di
me
che
non
conoscevo.
Riesco
però
solo
a
risponderti
per
qualche
verso,
poi
per
mesi
non
riesco
più,
mi
sembra
che
mi
si
pari dinanzi una parete nuda di cemento. Solo quando riesco a riprendere a scrivere mi accorgo che quella parete sono io.
Quante
volte
poi
nel
buio
dell’incoscienza,
quando
il
sol
tace
,
la
bellezza
cui
così
spesso
volto
le
spalle,
una
pallida
stellina
–
chi
per
lungo
silenzio
parea
fioco
–
inaspettatamente
mi
viene
offerta
dal
Mondo!
È
una
fitta
lancinante,
impastata
di
pianto
e
di
rimpianto,
di
pianto
perché
la
bellezza
fa
sempre
piangere
di
gioia,
ma
anche
di
rimpianto,
di
disperato
dolore
per
quello
che
le
ho
fatto
tradendola,
la
bellezza,
scacciandola
dal
mio
cuore,
come
ho
potuto
perderla?
Quando
è
riapparsa
nel
tuo
cuore,
pronta
a
servirsi
di
qualche
canale
che
inavvertitamente
nel
tuo
perderti
le
avevi
lasciato
aperto,
tu
hai
avuto
appena
il
tempo
di
vergognarti
e
d’impulso
hai
deciso
di
seguirla.
Ma
nonostante
tutto
ancora
dubiti
di
lei.
Ma
è
mai
possibile
che
siamo
così
diffidenti,
che
trattiamo
peggio
proprio
ciò
che
meno
lo
merita,
ciò
che
più
ha
diritto
e
bisogno
del
nostro
amore
e
della
nostra
devozione?
La
bellezza
langue
e
soffre
se
non
riesce
a
risplendere
nella
nostra
dolce
aria,
e per farlo ha bisogno di noi, della nostra carne e del nostro sangue.
Io
non
credo
che
queste
parole
per
te
siano
soltanto
retorica,
ornamento
rituale,
captatio
benevolentiae
.
Credo
che
per
te
scriverle
sia
stato
essenziale,
che
tu
abbia
dovuto
scriverle,
non
abbia
potuto
farne
a
meno,
che
sia
stato
per
te
tremendamente
difficile
e
terribile
e
salvifico
nello
stesso
tempo.
Credo
che
sia
stato
un
dramma,
che
ti
sia
sentito
realmente
inadeguato
e
incapace
del
compito,
schiacciato
dalla
sproporzione,
come
si
sente
chiunque
voglia
parlare
sul
serio,
chiunque
voglia
dire
le
cose
come
stanno,
chiunque
subisca
la
tremenda
sproporzione
fra
sé
stesso
e
il
Mondo,
quel
Mondo
che
sempre
lo
trascende
per
l’infinito
numero
di
dimensioni
nelle
quali
esplica
la
sua
manifestazione.
Anche
l’amato
libro
di
cui
ti
ho
parlato,
il
Doctor
Faustus
di
Thomas
Mann,
è
percorso
da
questo
timore
e
tremore,
dalla
speranza
di
riuscire
a
dire
sempre
minacciata
dal
sentimento
di
pochezza
dei
propri
mezzi.
Avrà
mai
il
narratore
l’affinità
per
un
compito
simile?
Non
è
solo
retorica,
l’artista
soffre
e
dispera
e
lotta
con
il
linguaggio
per
esprimersi.
Meglio,
lotta
per
permettere
all’opera
di
formarsi
servendosi
della
sua
carne e del suo sangue, lotta per partorirla. Una lotta che può lasciarlo sciancato, come l’angelo senza nome lascia Giacobbe.
Tu invochi: le Muse, l’ingegno, la memoria. A loro chiedi aiuto.
Invochi
che
su
te
scenda
dalle
regioni
più
alte
dell’essere
la
benedizione
della
bellezza,
che
noi
possiamo
soltanto
talvolta
sfiorare,
per
fare
a
tempo
a
sentirne
in
modo
bruciante
per
un
istante
il
beneficio
e
la
calda
carezza,
quella
bellezza
nella
quale
i
nostri limiti non ci permettono di abitare stabilmente, ma cui sempre aspiriamo anche più dell’aria per respirare.
Poi invochi il tuo mestiere, il tuo potere reale, quello che sai fare, questo sì, in tuo possesso.
E
infine
invochi
la
memoria.
Mente,
che
scrivesti
ciò
ch’io
vidi,
La
memoria:
per
me
è
una
cosa
sola
con
la
persona.
Tu
sei
la
tua
memoria, se perdi la memoria la tua persona stessa è in pericolo, svanisce, chi sei se non sai più chi sei?
Infine,
lo
scrivere:
è
il
cruciale
passaggio
dall’esperienza
informe,
caotica,
solitaria,
alla
forma
comunicabile,
condivisibile.
Solo
quando
condividi
con
qualcuno
ciò
che
ti
è
successo
lo
metti
a
fuoco,
ne
hai
autentica
conoscenza
(perché
ne
prendi
distanza
e
riesci
a
vederlo,
ci
vuole
sempre
un
po’
di
distanza
per
vedere)
solo
dandogli
forma
nel
racconto.
Così
accade
quando
scrivi,
solo
che
le
parole
in
questo
caso
vanno
da
te
al
Mondo
intero.
E
quanto
dovrai
pesarle
perché
siano
non
futili
ma
veraci,
piene
di
verità
per
il
Mondo!
Dovrai
ponderarle,
solo
alla
fine
di
processi
faticosi
e
complessi
le
affiderai
alla
carta,
dopo
mille
ripensamenti.
Condivisione e consapevolezza sono sorelle strette: questo è il centro di ogni psicoterapia ed è anche l’essenza dell’arte, che dà
ordine al caos dell’esperienza. Psicoterapia ed esperienza artistica sono intimamente vicine. Talvolta ho il dubbio che siano la
stessa cosa: basta solo che rinunciamo alla categoria del puramente estetico nel quale abbiamo relegato l’arte dal diciottesimo
secolo in avanti.
Ma l’aere bruno non toglie te dalle fatiche tue. La tua è la notte insonne che precede ogni grande prova.
L’aere
bruno
comincia
a
farci
paura
fin
da
bambini
e
continuerà
a
farlo
per
tutta
la
vita,
solo
che
da
grandi
avremo
qualche
strumento
in
più
per
rassicurarci
o
per
illuderci.
Dapprima
è
la
scomparsa
della
mamma,
che
lascia
il
posto
al
buio
popolato
da
mostri
senza
volto,
poi
diventerà
la
scomparsa
di
mamma
vita
e
il
presumibile
arrivo
di
un
qualcosa
senza
nome
e
del
tutto
irrappresentabile che tentiamo di esorcizzare chiamandolo qualche volta
nulla
, altre volte
vera vita
.
In
realtà
siamo
di
bocca
buona,
tutto
sommato
ci
basta
poco
perché
l’aere
bruno
non
ci
spaventi
troppo:
ci
basta
sapere
bene
di
cosa
disponiamo.
Qualche
strumento
ce
l’avremo
pure,
con
il
quale
fare
o
tentare
di
fare
qualcosa
di
buono,
che
vuole
dire
dare
una
qualche
testimonianza
del
nostro
modo
di
essere
umani
in
modo
che
lo
renda
un
po’
più
facile
agli
altri.
Se
riusciamo
a
fare
così,
o
almeno
se
ci
proviamo,
e
te
lo
dico
perché
a
me
succede
così,
allora
il
buio
ci
diventa
anche
amico
e
l’aere
bruno
ci
toglie
dalle
fatiche
nostre.
Se
invece
non
riusciamo
a
fare
così
l’aere
bruno
non
ci
toglie
un
bel
niente
e
piuttosto
ci
regala
brutte
notti
insonni
che
ci
ricordano quello che ostinatamente non vogliamo fare e che vogliamo ignorare.
Ma
il
tuo
caso
è
diverso.
L’aere
bruno
non
toglie
te
dalle
fatiche
tue
perché
mentre
tutti
riposano
tu
ti
prepari
a
una
grande
prova,
alla
guerra
cui
vai
incontro:
tu
hai
deciso
di
fare
quel
cammino
,
l’hai
deciso.
E
tu
sei
uno
di
quelli
che
se
lo
dice
lo
fa,
e
sono pochi.
Tu
sai
che
dovrai
vedertela
con
il
conflitto
perenne
fra
il
dover
procedere,
ineluttabile,
nel
cammino
(noi
oggi
lo
chiamiamo
percorso
),
fra
il
vivere
sul
serio
esplorando
tutte
le
dimensioni
dell’umano
e
la
pietà
che
proverai
per
l’umano
che
in
questo
viaggio incontrerai.
Dovrai
vedertela
con
il
conflitto
fra
la
spinta
a
vivere
la
tua
vita
con
pienezza
e
fino
in
fondo,
scendendo
e
scalando
tutti
i
piani
dell’essere,
e
la
continua
pena
del
lasciarti
alle
spalle
quell’umano
per
il
quale
non
riesci
a
impedirti
di
provare
simpatia
…
Dovrai
vedertela
con
il
conflitto
fra
l’inarrestabile
spinta
propulsiva
della
vocazione,
che
chiama,
o
meglio,
ordina
,
impone
di
essere
seguita,
e
il
senso
di
colpa
che
ogni
vera
vocazione
risveglia
cocente
e
implacabile.
Perché
ogni
passo
sulla
via,
sul
cammino
,
comporta
distacco,
ogni
passo
significa
che
qualcosa
si
conquista
e
qualcosa
si
perde
irrimediabilmente,
proprio
come
ogni
suono
nella
musica
nasce
e
muore,
fa
appena
a
tempo
a
risuonare
felice
che
già
deve
morire
e
lasciare
posto
al
successivo,
che
non
avrà
neppure
lui
vita
lunga.
Vivere
significa
morire,
abbandonare
prima
la
casa
natia,
poi
gli
amici
con
i
quali
facciamo
un
tratto
insieme
e
subito
sono
già
alle
nostre
spalle,
abbandonare
le
forme
di
quell’umano
per
il
quale
è
la
vocazione
stessa
a
farti
sentire
la
pietà,
pietà
necessaria
quanto
pericolosa:
perché
in
essa
si
annida
la
simpatia
per
l’umano
nella
sua
fragilità,
la
simpatia per l’errore, per il peccato come lo chiamerai tu, cui siamo sempre esposti per la nostra stessa libertà.
Simpatia
per
l’errore
che
ha
una
qualche
sua
legittimità,
intendiamoci:
studiando
musica
ho
imparato
che
ogni
errore
ha
sempre
un
senso
e
contiene
anche
un’indicazione
di
verità.
Occorre
però
che
io
lo
accetti,
l’errore,
come
tale
naturalmente,
proprio
come
errore,
e
che
riesca
a
capire
perché
l’ho
fatto,
seguendo
quale
strada
cieca.
Devo
accettare
l’errore,
portarmi
positivamente sulle spalle il mio sonno con la mia fallibilità, e tuttavia tentare continuamente di svegliarmi.
Per
conoscere
l’essere
umano
dovrai
prima
conoscere
la
sua
fragilità,
il
suo
limite,
quello
che
tu
chiami
peccato
e
che
io
chiamo
la
nostra
capacità
di
dire
no
alla
vita:
per
conoscere
bisogna
guardare
da
vicino
e
proprio
guardando
da
vicino
ciò
che
tu
chiami
peccato
sei
soggetto
alla
sua
lusinga.
Tu
già
l’hai
provato.
Già
perdesti
la
speranza
de
l’altezza
di
fronte
a
quella
bestia
sanza
pace.
Sì
del
cammino
e
sì
della
pietate
:
ora
dovrai
tener
duro,
lasciare
che
vizio,
peccato,
errore
dopo
essere
stati
guardati
nell’altro
e
riconosciuti
in
te
stesso
si
stacchino
da
te
e
cadano
come
foglie
d’autunno.
Uh,
non
è
facile,
lo
credo
che
ti
vengono
tanti
dubbi
e
non
ti
senti
all’altezza.
Se
sono
uomo
ho
tutte
quelle
debolezze
che
vedo
in
chiunque
davanti
a
me.
Noi
oggi
parliamo
di
psicoterapia
:
parola
usata
e
abusata
e
corrosa
magari
dall’uso.
Ma
terapia,
therapéia
voleva
dire
primariamente
servizio
,
servizio
reso
agli
dei
con
il
culto,
agli
uomini
con
il
trattamento
medico,
alle
piante
con
la
coltivazione.
Mi
piace
questo
accento
sul
servizio
,
che
rimane
sempre
servizio
lo
si
presti
alla
pianta,
all’umano
o
al
divino.
Le
presenze
della
pianta
e
dell’umano
risplendono
se
prestiamo
loro
il
servizio,
e
forse
anche
quella
del
divino.
Il
nostro
compito
di
servitori
dell’anima
è
guardare
l’umano
fino
in
fondo
e
fargli
da
specchio,
accoglierlo
con
calore
vivificante
mantenendone
al
tempo
stesso
la
distanza,
mantenendoci ben separati da lui. Un piede nella sua vita e l’altro, saldissimo, nella nostra.
E
poi
ancora
nostro
compito
è
trasformare
l’offerta
del
Mondo,
che
sovente
appare
indigesta
–
no
grazie,
ho
già
dato,
Mondo
per
cortesia
questa
risparmiamela
–
trasformare
questo
po’
po’
di
doni
generosi
che
il
Mondo
ogni
tanto
si
degna
di
regalarci
in
nutrimento per la pienezza della nostra presenza. Non è facile affatto. So che lo sai.
Che
ritrarrà
la
mente
che
non
erra
:
tu
hai
certezza
che
la
mente
…
non
erra
,
che
sa
vedere
le
cose
come
stanno.
Te
l’ho
già
detto,
io
questo
l’ho
sperimentato
soltanto
quando
la
morte
mi
soffiava
sul
collo.
Solo
lei
ci
mostra
il
vero,
l’essere,
le
cose
come
stanno.
L’esperienza
della
morte,
che
vuol
dire
sempre
soltanto
la
morte
vera,
quella
di
coloro
che
amiamo.
Forse
no,
forse
non
solo
la
morte
ci
mostra
il
vero,
forse
anche
l’unica
altra
sicurezza
che
abbiamo
oltre
a
lei,
il
nascere.
Anche
una
nascita
costringe
lo
sguardo
al
vero.
E
talvolta
non
ne
siamo
pronti
…
Alla
forza
conoscitiva
della
morte
forse
alludi
quando
parli
del
viaggiare
nell’oltre tomba, viaggiare che porta vera conoscenza?
Nell’agosto
del
1961
mi
trovavo
al
mare
ad
Alassio.
Appena
un
anno
dopo
Dino
Risi
con
Il
sorpasso
avrebbe
dato
degna
rappresentazione
di
quell’Italia
arrogante
e
cialtrona,
furba
e
fin
troppo
furba,
che
tu
conoscevi
già
così
bene
secoli
fa
e
che
popolava
ancora
e
sempre
d’estate
le
spiagge,
quell’Italia
dalla
quale
mi
scostavo
con
fastidio
e
disagio,
non
immaginando
che
avrei dovuto conviverci per altri cinquant’anni e più – sempre che ora sia davvero venuta meno …
Avevo
17
anni
e
in
quell’agosto
da
spiaggia
avevo
portato
con
me
un
libro,
ponderoso,
del
quale
ti
parlerò
fra
poco.
Ti
basti
sapere
per
ora
che
insieme
al
libro
avevo
portato
anche
una
delle
meraviglie
che
il
tuo
tempo
ancora
non
conosceva
e
che
ora
sono
fra
noi
diffusissime:
scatole
magiche
dalle
quali
escono
a
nostro
piacimento
immagini
in
movimento
accompagnate
dai
loro
suoni.
Dalla
mia
scatola
di
allora,
color
senape
e
dotata
di
quattro
tasti
colorati,
uscivano
però
soltanto
suoni
che,
trasformati
in
segnali
elettrici,
giacevano
silenti
su
certi
nastri
color
marrone
scuro.
La
scatola
magica,
svolgendo
e
riavvolgendo
i
nastri,
si
incaricava
di
ritrasformare
i
segnali
elettrici
risvegliandone
i
suoni
silenti
dopo
che
io
avevo
pigiato
gli
opportuni
tasti.
Avevo
in
precedenza
depositato
su
quei
nastri
il
Quartetto
in
do
diesis
minore
op.
131
del
Gran
Sordo
e
alcune
sue
Sonatine
per
mandolino
e
clavicembalo
del
1796,
quando
aveva
26
anni
e
della
sordità
nulla
sapeva
ancora.
La
minuscola
raccolta
comprendeva
però
anche
l’
Adagio
per
archi
e
organo
di
Tomaso
Albinoni,
un
breve
brano
che
ritenevo
della
prima
metà
del
XVIII
secolo
e
che
invece
forse
era
stato
composto
pochi
anni
prima
di
quell’agosto.
Insieme
alla
scatola
color
senape
dai
tasti
colorati
avevo
portato
appunto
quel
libro,
nel
quale
in
alcune
pagine
l’autore
incaricava
un
musicologo
balbuziente
di
tenere,
davanti a uno scarsissimo pubblico, una conferenza sul quesito
Perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo alla sonata per pianoforte, op. 111…
mentre altrove faceva dire al protagonista della biografia, a proposito dell’
Ouverture
Leonora n. 3
dello stesso Beethoven
… questa musica è l’energia in sé, l’energia in persona, ma non come idea, bensì nella sua realtà. Ti prego di riflettere che questa è
quasi la definizione di Dio …
Rilessi quel libro altre due volte nelle estati successive, sempre ad agosto, sempre ad Alassio, in compagnia di quell’Italia che nel
frattempo non era certo cambiata ... Non capivo tutto ciò che leggevo, ma senza ombra di dubbio e con la sicurezza, incosciente
certo ma non per questo meno sicurezza, dei miei 17 anni sentivo che quel libro parlava proprio di me. Anzi, e non darmi del
folle, parlava proprio a me. D’altronde anche tu, parli a me. Nel corso della vita lo rilessi diverse altre volte, e mi è oggi forse per
la settima ma spero non ultima volta compagno fedele e consolatore. Anche ora, come d’altronde in ogni rilettura precedente,
riconosco con chiarezza sempre maggiore in quel libro, così ricco di pensiero, di cultura, di musica e di tipi umani, tratti e figure
che avrei incontrato sulla mia strada, o che avrei impersonato io stesso.
Ma
che
c’entra
questo
ricordo
con
le
tue
parole?
C’entra
moltissimo,
eccome,
abbi
un
po’
di
pazienza,
indugio
ancora
un
poco
sui tuoi versi, provo un piacere quasi fisico a ripetermeli:
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
Toglieva li animai che sono in terra
Da le fatiche loro …
Sono
dolcissime,
le
tue
parole:
è
il
tramonto,
l’abbrunarsi
dell’aria
ci
solleva,
ci
libera,
noi
tutti
viventi
su
questa
terra,
da
le
fatiche
del
giorno.
Benedetto
sia
il
riposo
del
sonno,
che
allevia
la
stanchezza
di
noi
povere
creature,0
colpevoli
e
incolpevoli
ma
sempre
comunque
sofferenti!
Un
vecchio
di
84
anni,
Richard
Strauss,
il
4
agosto
1948
lesse
una
poesia
di
Hermann
Hesse,
Beim
schlafengehen
,
Addormentandosi
e
la
musicò.
Si
trovava
a
Pontresina,
in
Engadina,
e
mi
piace
pensare
che
fosse
sera.
Quanto
vorrei che tu la ascoltassi:
Nun der Tag mich müd gemacht,
soll mein sehnliches Verlangen
freundlich die gestirnte Nacht
wie ein müdes Kind empfangen.
Hände, laßt von allem Tun,
Stirn, vergiß du alles denken,
alle meine Sinne nun
wollen sich in Schlummer senken.
Und die Seele, unbewacht,
will in freien flügeln schweben,
um im Zauberkreis der Nacht
tief und tausendfach zu leben.
Ora il giorno mi ha reso stanco,
possa la cara notte stellata
accogliere la mia ardente nostalgia
come un bimbo stanco.
Mani, staccatevi da ogni fare,
fronte, dimentica ogni pensiero,
ora i miei sensi tutti vogliono
inabissarsi nel sonno.
E l’anima, incustodita,
vuole librarsi con libere ali,
per vivere mille volte profondamente
nel magico cerchio della notte.
Quella
sera,
dico
quella
del
4
agosto
1948,
seicentoventisette
anni
e
quarantuno
giorni
dopo
la
tua
dipartita,
io
avevo
solo
quattro
anni
e
so
per
certo
che
mi
trovavo
sulle
rive
del
lago
meraviglioso
della
mia
infanzia,
a
guardarlo
con
occhi
sgranati
dallo
stupore.
Quanti
grandi
vecchi
attorno
a
me,
senza
che
lo
sapessi!
Nelle
villette
della
Fondazione
Eranos,
a
tre
chilometri
dalla
casa
dove
trascorrevo
l’estate,
Carl
Gustav
Jung
forse
non
era
proprio
presente
lì
quella
sera,
ma
certamente
vi
era
di
casa:
fu
uno
dei
principali
fondatori
e
animatori
delle
annuali
Eranos
Tagung
dal
1933
al
1952.
Un
poco
più
distante
Hermann
Hesse
viveva
nelle
vicinanze
dell’altro
lago,
anche
quello
meraviglioso,
a
Montagnola
presso
Lugano,
e
aveva
scritto
da
pochi
anni
Il
giuoco
delle
perle
di
vetro.
L’autore
del
libro
di
quella
mia
estate
da
diciassettenne
era
Thomas
Mann,
che
dopo
13
anni
di
esilio
negli
Stati
Uniti
era
tornato
in
Europa
e
aveva
soggiornato
proprio
nell’anno
precedente,
il
1947,
per
tre
giorni
a
Meina,
ospite
dell’editore
italiano
delle
sue
opere,
su
quello
stesso
meraviglioso
lago
che
faceva
sgranare
a
me
gli
occhi
a
Brissago,
sul
versante
svizzero.
Più
in
là,
sempre
in
quelle
Alpi
ma
non
poi
così
distante
da
me,
quell’altro
altro
grande
vecchio
ancora
scriveva quella musica che per anni mi avrebbe accarezzato il cuore rendendomi più amico il sonno e la morte stessa.
In
quale
straordinaria
costellazione
mi
trovavo,
bimbo
inconsapevole,
quali
spiriti
magni
mi
circondavano
nella
tersa
aria
di
quel
lago
che
fondeva
acqua
cielo
e
terra
in
una
meravigliosa
unità.
Attorno
a
me
quegli
spiriti
magni
che
mi
avrebbero
accompagnato
per
tutta
la
vita
vivevano,
respiravano
e
operavano.
Io
nulla
sapevo,
respiravo
soltanto
la
bellezza
incantata
di
quei luoghi nei quali anche loro trovavano pace operosa.
Leggere
le
tue
parole
per
me
è
come
salire
su
una
giostra
del
tempo:
il
tempo
tuo
mi
risveglia
quello
dei
miei
diciassette
anni,
e
questo
a
sua
volta
attraverso
una
deliziosa
catena
associativa
quello
dei
quattro,
quando
il
mio
sguardo
era
ancora
pieno
di
quella
meraviglia
che
tanto
ho
cercato
di
conservare
tante
volte
perdendola.
Quante
volte
mi
esce
dalla
penna,
scusami,
dalla
tastiera, la parola
meraviglia
! Forse esagero un poco, ma non ho altre parole per dire quello sguardo infantile.
e io sol uno
Ma
davvero
in
quell’estate
del
1961
mi
sentivo
solo.
Sembrava
che
dal
Mondo
la
meraviglia
che
il
mio
sguardo
sapeva
scorgervi
fosse
stata
tutta
risucchiata
per
andare
a
concentrarsi
nella
musica
del
Gran
Sordo
e
nella
lettura
del
mio
librone
ponderoso.
La
mia
stanzetta
d’albergo,
nella
quale
prima
di
addormentarmi
ascoltavo
dalla
mia
scatola
color
senape
dai
tasti
colorati
le
musiche
di
cui
ti
ho
scritto,
era
situata
al
terzo
piano
di
un
albergo.
La
finestra
non
guardava
sul
mare,
bensì
su
uno
spiazzo
interno
per
il
quale
passava
il
budello,
famosa
via
dei
negozi
stretta
e
frequentatissima
da
turisti
a
ogni
ora
del
giorno
e
della
notte.
Turista
è
una
parola
a
te
ignota,
e
ancora
di
più
turismo
di
massa,
che
vuol
dire
luoghi
incantevoli
invasi
da
masse
,
appunto
di
turisti,
persone,
tante,
desiderose
soprattutto
di
divertirsi
e
di
farlo
a
voce
molto
alta.
Se
ancora
non
ti
sei
fatto
un’idea
di
cosa vuol dire turista, ti posso dire infine che il turista è il peggior nemico del silenzio e dell’empatia.
Ora,
nello
spiazzo
sottostante
la
mia
finestra
c’erano
i
tavolini
del
caffè
con
la
musica,
attiva
tutte
le
sere
fino
a
tardi.
E
la
musica
era
la
consueta
musica
leggera
di
quei
tempi.
Canzoni
anche
gradevoli,
ricordo
qualche
titolo
Legata
a
un
granello
di
sabbia,
Il
pullover
e
altre,
ma
che
costringevano
il
mio
amato
librone
a
rimanere
chiuso
e
la
scatola
color
senape
dai
bei
tasti
colorati
a
regalarmi la buonanotte del
Quartetto op. 131
solo a notte inoltrata.
Una
notte
di
luna
piena,
ero
solo
sulla
spiaggia
in
attesa
che
terminasse
la
musica
del
caffè,
ebbi
all’improvviso
acuta
consapevolezza,
con
una
stretta
al
petto,
della
mia
solitudine
e
dell’oscura
impervietà
del
mio
futuro.
Acuta
quanto
confusa,
se
una
consapevolezza
può
essere
confusa.
Avvertivo
un
peso,
un’oppressione
al
petto,
avevo
17
anni,
mi
sentivo
solo
e
avevo
paura.
Miei
compagni
erano
quelle
musiche,
il
Quartetto
op.
131
del
Gran
Sordo,
ascoltando
il
quale
mi
venne
da
pensare
che
qualunque
cosa
significasse
la
parola
Dio,
e
non
sapevo
davvero
cosa
significasse,
comunque
doveva
avere
a
che
fare
con
quella
musica.
E
non
ti
dico
la
mia
emozione
quando
arrivai
alle
pagine
in
cui
si
parlava
in
quei
termini
della
Leonora
n.
3
,
che
pur non essendo contenuta nella mia scatola musicale color senape, era da qualche anno diventata il
mio
inno, il
mio
canto.
Ecco,
è
ora
che
ti
dica
il
nome
di
quel
libro.
L’autore,
Thomas
Mann,
aveva
deciso
di
usare
come
epigrafe
del
suo
romanzo,
il
Doctor Faustus
, proprio le tre terzine iniziali del
Canto II
della prima
Cantica
dell’
Inferno.
Posseggo
ancora
quel
libro,
è
la
seconda
edizione,
quella
dell’aprile
del
1957.
Lo
sfoglio
sempre
con
emozione,
un
libro
vecchio
di
numerose
letture
quanto
di
anni,
la
cui
copertina
rigida
con
sovraccoperta
di
un
verdino
ormai
stinto
riporta
nel
riquadro
bianco
l’immagine
stilizzata
della
Medusa.
Dopo
la
bianca
pagina
interna
del
titolo,
più
che
bianca
dovrei
dire
piuttosto
ingrigita
dai
quasi
sessant’anni
di
età,
pagina
che
verso
i
bordi
si
ingiallisce
nettamente
per
effetto
della
luce
che
ostinata
anche
a
libro
chiuso
riesce
a
infilarsi
e
ad
accelerare
la
combustione
della
carta
....
ebbene,
girata
la
pagina
del
titolo,
ecco
a
sinistra
i
tuoi
versi in corsivo e a destra l’inizio del primo dei quarantasette capitoli dell’opera
Se a queste notizie sulle vicende del defunto Adrian Leverkühn …
Mentre
ti
scrivo
queste
pagine,
scopro
poi
un’ulteriore
e
singolare
coerenza
interna
nel
bagaglio
che
mi
portai
ad
Alassio
quell’anno,
espressione
lampante
e
quasi
umoristica
della
mia
estraneità
al
mondo
di
allora.
Fra
il
Gran
Sordo
e
Thomas
Mann
il
legame
mi
era
chiaro,
anzi
l’acquisto
del
libro
avvenuto
poche
settimane
prima
mi
si
era
imposto
come
necessario
e
inderogabile
proprio
perché
un
amico
di
allora
mi
aveva
avvertito
che
nel
libro,
edito
in
Italia
pochi
anni
prima,
avrei
trovato
quelle pagine dedicate al Gran Sordo. Ma il brano di Albinoni sembrava aver poco a che fare sia con lui sia con il libro.
E
invece
venni
a
scoprire
un
legame
più
profondo,
segreto
e
drammatico
fra
quel
brano
e
il
mondo
tedesco
cui
appartenevano
tutti
quegli
spiriti
magni
e
dal
quale
mi
sarei
sempre
in
seguito
sentito
potentemente
attratto.
Sì,
perché
l’
Adagio
in
sol
minore
per
archi
e
organo
di
Albinoni
forse
non
era
proprio
di
Albinoni.
La
composizione
musicale
barocca
sarebbe
stata
scritta
nel
XVIII
secolo
dal
musicista
veneziano,
ma
pubblicata
soltanto
nel
1958
da
Remo
Giazotto,
compositore
e
musicologo,
profondo
conoscitore
del
Settecento
musicale
italiano
e
in
particolare
biografo
approfondito
di
Tomaso
Albinoni.
Giazotto
sosteneva
di
aver
ricostruito
l’
Adagio
a
partire
da
un
basso
continuo
e
da
alcune
linee
melodiche
che
sarebbero
stati
ritrovati
nel
1945
tra
le
macerie
della
biblioteca
di
Stato
di
Dresda
–
l'unica
biblioteca
a
possedere
partiture
autografe
albinoniane
–
dopo
il
tremendo
bombardamento
della
città
avvenuto
il
13
e
il
14
febbraio
1945,
in
seguito
al
quale
Dresda,
giustamente
detta
la
Firenze
del
nord,
venne
rasa
al
suolo
al
95%
facendo
mal
contati
qualcosa
come
almeno
100000
morti.
O
forse
200000?
Leggendo
le
testimonianze
dei
sopravvissuti,
sembra
senza
senso
anche
solo
tentare
di
calcolare
quel
numero
di
morti,
in
una
città
di
600000
abitanti
piena
di
più
di
mezzo
milione
di
sfollati
dall’est.
Dopo
la
morte
di
Remo
Giazotto,
avvenuta
nel
1998,
tuttavia
nessun
frammento
di
notazione
di
Albinoni
venne
trovato
in
possesso
della
Biblioteca
Nazionale
Sassone,
per
cui
prese
corpo
l’ipotesi
che
il
magnifico
brano
del
XVIII
secolo
fosse
stato
in
realtà
scritto
da
Giazotto
stesso.
Da
quando
venne
pubblicato,
il
brano ebbe comunque una vastissima notorietà per la sua bellezza e intensità espressiva.
E
allora,
con
la
coerenza
nelle
scelte
del
mio
bagaglio
estivo
per
Alassio,
che
c’entra
tutto
ciò?
C’entra
eccome,
perché
il
Doctor
Faustus
fu
iniziato
da
Thomas
Mann
nel
1943,
esule
dalla
Germania
a
Pacific
Palisades
nei
pressi
di
Los
Angeles,
e
la
stesura
per
due
anni
avvenne
sullo
sfondo
delle
tremende
notizie
che
gli
arrivavano
dal
fronte
europeo.
Thomas
Mann
immaginò
che
il
narratore
della
biografia
di
Adrian
Leverkühn,
Serenus
Zeitblom,
iniziasse
il
suo
lavoro
il
27
maggio
1943
nel
suo
studiolo
a
Freising,
sull’Isar,
e
che
la
quiete
del
suo
lavoro
fosse
continuamente
turbata
dal
fragore
e
dall’orrore
dei
tremendi
bombardamenti cui fu soggetta la Germania nazista in quegli anni. Leggi con quali parole si chiude il libro
[nel
1940]
…
La
Germania,
coi
pomelli
accesi,
traballava
allora
al
colmo
dei
suoi
orrendi
trionfi,
in
procinto
di
conquistare
il
mondo
in
virtù
del
solo
trattato
ch’era
disposta
a
osservare
e
che
aveva
firmato
col
suo
sangue.
Oggi
[1945
],
avvinghiata
dai
demoni,
coprendosi
un
occhio
con
la
mano
e
fissando
l’orrore
con
l’altro,
precipita
di
disperazione
in
disperazione.
Quando
toccherà
il
fondo
dell’abisso?
Quando
sorgerà
dall’estrema
disperazione,
pari
a
un
miracolo
superiore
a
ogni
fede,
il
nuovo
crepuscolo
di
una
speranza?
Un
uomo
solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!
Quali
legami
a
me
allora
ignoti
collegavano
quindi
quel
magnifico
brano
settecentesco,
forse
recentissima
ricostruzione
dello
stile
barocco
composta
alla
fine
del
XX
secolo,
con
il
mondo
tedesco,
con
quell’umanesimo
tedesco
dei
Bach,
dei
Goethe,
dei
Beethoven,
degli
Hesse,
dei
Mann,
orrendamente
tradito
e
dilaniato
prima
dalla
canea
nazista
e
poi
dalle
sue
inevitabili
conseguenze!
Poco
dopo
quelle
atroci
giornate
del
13
e
14
febbraio
1945,
il
17
febbraio,
io
avrei
compiuto
il
mio
primo
anno
di
vita.
e io sol uno
Uno.
E
solo.
Non
capivo,
non
sapevo
ancora
in
quell’agosto
del
1961,
che
uno
implica
solo
,
che
l’unicità,
che
tanto
agognavo
e
alla quale tenevo e tengo più di ogni altra cosa, porta con sé solitudine. E che più sei uno, unico, più sei solo.